Verso i beni comuni

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* Article: Stefano Rodotà. Verso i beni comuni

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Stefano Rodota:

1. Alla fine del 2012 viene pubblicata negli Stati Uniti una raccolta di saggi dal titolo The Wealth of the Commons, che dimostra quanto sia ancora forte il valore simbolico attribuito all’evocazione di Adam Smith e del suo The Wealth of the Nations. Era già avvenuto nel clima creato dalla nuova dimensione del mondo digitale e Yochai Benkler, analizzandone gli aspetti, aveva parlato proprio di The Wealth of the Networks . Ma questo libro in qualche modo raccoglieva le suggestioni di Smith, mentre “la ricchezza dei commons” se ne allontana polemicamente, come indica chiaramente il suo sottotitolo – “oltre lo Stato e il mercato”. Una contrapposizione, questa, che dà forza espressiva a un progressivo abbandono della logica proprietaria che stava alla base della’antico modello.

Non siamo di fronte ad una vicenda tutta legata ai tempi più recenti. Si è già ricordato che, nel 1964, Charles Reich aveva pubblicato un saggio dal titolo “The New Property” , destinato ad influenzare assai la discussione scientifica e l’orientamento delle corti . E la strada indicata nell’affrontare situazioni formalmente definibili come “non proprietà” era quella di attribuire anche ad esse le medesime prerogative costruite intorno allo storico schema proprietario Da qui “la nuova proprietà”, proiezione nel mondo nuovo di un passato rassicurante.

Era una mossa istituzionale né nuova, né imprevedibile. Il modello proprietario, per il suo radicamento storico e sociale, ha finito con l’incarnare la forma più intensa della protezione giuridica, alla quale ricorrere tutte le volte che si voleva mettere a punto una tutela forte. In Italia, ad esempio, la sostituzione dell’impresa alla proprietà nel cuore del sistema economico ha suggerito la ricostruzione del diritto d’impresa con una trasposizione della categoria proprietaria . Per il rafforzamento delle garanzie per l’occupazione da parte dello Statuto dei lavoratori si è parlato di una tutela “reale”, considerando il posto di lavoro come un bene accompagnato da una tutela appunto di tipo proprietario.

Nel 2003 un altro studioso statunitense, James Boyle, apriva un numero della rivista Law and Contemporary Problems proponendo un interrogativo radicale: “The Opposite of Property?” . Al centro dell’analisi non veniva più posto più il modello proprietario, ma l’attenzione era spostata verso un diversa gestione dei beni, né individualistica, né esclusiva. Non di tutti i beni, ovviamente. Ma un così profondo mutamento di punto di vista determinava comunque una cesura, perché il modello della proprietà solitaria non veniva più indicato come l’approdo necessario per tutti gli interessi che si volevano assistiti da una garanzia giuridica particolarmente qualificata.

Che cosa era accaduto nei quarant’anni che dividono quei due studi? Nel mondo aveva cominciato a diffondersi quella che Franco Cassano ha chiamato la “ragionevole follia dei beni comuni” . La follia si insinuava nel mondo ordinato del diritto, veniva indicata come un carattere del nuovo homo civicus, così liberato dall’obbligo di consegnarsi all’ossessione proprietaria che lo separava e lo allontanava dai suoi simili, ritrovando invece anche il filo dei legami sociali. Ma in quell’ossimoro, che associava ragione e follia, vi era una chiara indicazione di metodo. I beni comuni esigono una diversa forma di razionalità, capace di incarnare i cambiamenti profondi che stiamo vivendo, e che investono la dimensione sociale, economica, culturale, politica. Siamo così obbligati ad andare oltre lo schema dualistico, oltre la logica binaria, che ha dominato negli ultimi due secoli la riflessione occidentale – proprietà pubblica o privata. E tutto questo viene proiettato nella dimensione della cittadinanza, per il rapporto che si istituisce tra le persone, i loro bisogni, i beni che possono soddisfarli, così modificando la configurazione stessa dei diritti definiti appunto di cittadinanza, e delle modalità del loro esercizio.

Questa non è una illuminazione improvvisa . E’ l’esito di una riflessione che riguarda i “beni primari”, necessari per garantire alle persone il godimento di diritti fondamentali, e per individuare gli interessi collettivi, le modalità di uso e gestione dei beni stessi. “Interessi collettivi e retroterra non proprietario hanno fatto così guadagnare al mondo istituzionale una terza dimensione, nella quale si muovono a disagio i cultori della geometria istituzionale piana” . Emerge un retroterra non proprietario, si manifesta concretamente l’esigenza di garantire situazioni legate al soddisfacimento delle esigenze e dei bisogni della persona, considerata appunto nella realtà della vita materiale e del rilievo ad essa attribuito dai documenti costituzionali, sì che oggi è legittimo parlare di una persona “costituzionalizzata” . La via verso la riscoperta dei beni comuni è così aperta.

Ad una prima lettura, la stessa Costituzione si presenta legata allo schema binario, poiché l’articolo 42 si apre con le parole “la proprietà è pubblica o privata”. Ma la terza dimensione emerge nell’articolo 43, dove si prevede, in particolare, che possano essere affidate “a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”. Si adotta così in una logica istituzionale che svincola l’interesse non individualistico per determinati beni dal riferimento obbligato alla proprietà pubblica, alla tecnica delle nazionalizzazioni. Si apre una ben visibile terza via tra proprietà privata e pubblica, la cui portata si chiarisce meglio analizzando due riferimenti essenziali contenuti nell’articolo 42 – l’affermazione secondo cui la proprietà deve essere resa “accessibile a tutti” e il ruolo attribuito alla sua “funzione sociale”. Riferendosi al tempo in cui la Costituzione veniva scritta, è ragionevole ritenere che con il riferimento all’accesso si volesse alludere alla necessità per tutti e ciascuno di poter divenire titolari del diritto su un bene secondo il modello della proprietà solitaria. “Non: ‘tutti proletari’, ma ‘tutti proprietari’” – così era scritto, con evidente spirito polemico, nel Programma della Democrazia Cristiana per la nuova Costituzione (i cui rappresentati all’Assemblea costituente, peraltro, ebbero un ruolo importante, e niente affatto conservatore, nella stesura dell’articolo 42 ). Proprio la riflessione più recente, tuttavia, ha progressivamente fatto emergere una nozione di accesso che non è necessariamente e strumentalmente collegata all’acquisizione di un titolo di proprietà. Accesso e proprietà si presentano come categorie autonome e, in diverse situazioni, potenzialmente o attualmente in conflitto. Si può accedere a un bene, e goderne delle utilità, senza assumere la qualità di proprietario. In questo senso, l’accesso costituzionalmente previsto ben può essere inteso come strumento che consente di soddisfare l’interesse all’uso del bene indipendentemente dalla sua appropriazione esclusiva. Siamo così al di là delle stesse opportunità offerte dall’articolo 43. Come s’era in passato distinto tra proprietà e gestione nella prospettiva di una contrapposizione tra proprietà formale e sostanziale, la distinzione tra proprietà e accesso è ormai da tempo un tratto che caratterizza la discussione pubblica.

Muta lo sguardo sulla proprietà. “La proprietà (…) non ha bisogno d’essere confinata, come ha fatto la teoria liberale, nel diritto di escludere gli altri dall’uso o dal godimento di alcuni beni, ma può egualmente consistere in un diritto individuale a non essere escluso ad opera di altri dall’uso o dal godimento di alcuni beni” . Usando la vecchia terminologia, si potrebbe dire che si passa da una proprietà “esclusiva” ad una “inclusiva”. Più correttamente, questa situazione può essere descritta come riconoscimento della legittimità che al medesimo bene facciano capo soggetti e interessi diversi. Il discorso sull’esclusione viene tramutato così in quello sull’accessibilità.

Questo necessario adeguamento delle categorie, nel quale possa rispecchiarsi la nuova razionalità, trova un suo ulteriore svolgimento nella considerazione della storica, e sempre controversa, categoria della funzione sociale. Questa, nata come insieme di limiti e vincoli all’esercizio del potere proprietario, è stata poi intesa anche come strumento per definire lo stesso contenuto del diritto, per circoscrivere fin dall’origine le facoltà esercitabili dal proprietario. Ma essa è stata poi configurata anche come potere di una molteplicità di soggetti di partecipare alle decisioni riguardanti determinate categorie di beni . Infatti, nel momento in cui taluni beni sono al centro di una “costellazione” di interessi, quando il “bundle of rights” che li caratterizza include anche quelli di una molteplicità di soggetti, questa loro particolarità implica che, in forme ovviamente differenziate, si dia voce a chi li rappresenta. Emerge così un modello partecipativo.

La revisione delle categorie proprietarie, dunque, porta con sé anche una revisione delle categorie dei beni, con il riemergere dei beni comuni, che tuttavia assumono caratteristiche anch’esse irriducibili ai modelli storicamente già noti. Se, ad esempio, si ritiene necessaria una nuova tassonomia, che prenda le mosse da quelli che tradizionalmente vengono considerati beni pubblici, questa non può esaurirsi nella contemplazione dei beni comuni, trascurando o ritenendo irrilevante una innovazione che investa quei beni nel loro insieme. I beni pubblici possono essere definiti partendo dalla considerazione che essi si caratterizzano per l’appartenenza collettiva e la sottrazione alla logica del mercato e della concorrenza, riguardando propriamente i beni materiali e immateriali indispensabili per l’effettività dei diritti fondamentali, per il libero sviluppo della personalità e perché siano conservati anche nell’interesse delle generazioni future. Accanto ad essi, tuttavia, devono comparire altre categorie di beni, come quelli indispensabili per lo svolgimento delle funzioni istituzionali dello Stato e per il raggiungimento di specifiche finalità sociali, insieme a quelli che devono essere “messi in valore”, perché la collettività possa trarne il massimo beneficio. Si determina così anche uno spostamento dell’asse concettuale, poiché non si muove dalla considerazione del soggetto al quale appartengono, ma delle funzioni alle quali devono adempiere nell’ambito dell’organizzazione sociale.


L’attenzione rivolta ai beni comuni, dunque, non si risolve tutta nella costruzione di una nuova categoria di beni. L’astrazione proprietaria si scioglie nella concretezza dei bisogni, ai quali viene data evidenza soprattutto collegando i diritti fondamentali ai beni indispensabili per la loro soddisfazione. Ne risulta un cambiamento profondo. Diritti fondamentali, accesso, beni comuni disegnano una trama che ridefinisce il rapporto tra il mondo delle persone e il mondo dei beni. Questo, almeno negli ultimi due secoli, era stato sostanzialmente affidato alla mediazione proprietaria, alle modalità con le quali ciascuno poteva giungere all’appropriazione esclusiva dei beni necessari. Proprio questa mediazione viene ora revocata in dubbio. La proprietà, pubblica o privata che sia, non può comprendere e esaurire la complessità del rapporto persona/beni. Un insieme di relazioni viene ormai affidato a logiche non proprietarie.

Questa logica ci spinge al di là del mondo dei beni, ci riporta alla persona nella sua integralità e all’insieme dei suoi diritti fondamentali. E’ la storica categoria della cittadinanza ad essere messa in discussione. Quando i diritti di cittadinanza divengono quelli che accompagnano la persona quale che sia il luogo in cui si trova, l’individuazione di questo spazio infinito, di questo nuovo common, porta con sé uno stare nel mondo che certamente sfida la cittadinanza oppositiva, nazionale, puramente identitaria. Larga e diffusa, dunque, è quella che ormai possiamo propriamente chiamare la “rivoluzione dei beni comuni”: Non siamo, infatti, solo di fronte ad una revisione di categorie tradizionali, ma all’emergere di quella nuova razionalità alla quale si è accennato all’inizio, che ha il suo fondamento nella connessione sempre più intensa tra persone e mondo esterno, con una forza espansiva che si estende fino alle frontiere della ridefinizione complessiva della collocazione della persona in una organizzazione sociale globalmente intesa, identificata appunto attraverso le caratteristiche dei beni da tutelare come comuni, come dimostra, adf esempio, la conoscenza in rete..


2. Per comprendere meglio questa vicenda estremamente intricata, tuttavia, non è solo indispensabile essere consapevoli delle elaborazioni che, negli ultimi decenni, hanno articolato le forme proprietarie e ridefinito le categorie dei beni. Conviene tornare a un riferimento ad un passato più lontano, ad esempio alla riflessione già ricordata di Alexis de Tocqueville , che qui dev’essere completata con la notazione finale, riferita al fatto che proprio nel gran campo di battaglia proprietario si sarebbero rivisti “le grandi agitazioni pubbliche e i grandi partiti”. E’ importante notare come il liberal-conservatore Tocqueville non si chiudesse nell’equazione “proprietà uguale libertà”, dunque nella dimensione puramente individualistica. Nel momento in cui l’istituto proprietario diveniva affare di società, scopriva che il momento del conflitto era ineliminabile, caratterizzava le dinamiche dell’istituzione proprietaria. Non a caso quel grande indagatore della società francese che fu Honoré de Balzac tre anni prima, nel 1844, aveva scelto come titolo iniziale del romanzo che si sarebbe chiamato Les paysans, “Qui propriété a, guerre a” – chi ha proprietà, ha guerra. Di nuovo l’immagine bellica, ritenuta l’unica possibile per descrivere l’asprezza del conflitto .

Quel conflitto è continuato, ininterrotto, e il campo di battaglia, che per Tocqueville era sostanzialmente quello della proprietà terriera, si è progressivamente dilatato. Oggi sono soprattutto i beni comuni – dall’acqua all’aria, alla conoscenza – al centro di un conflitto davvero planetario, di cui ci parlano le cronache, confermandone la natura direttamente politica, e che non si lascia racchiudere nello schema tradizionale del rapporto tra proprietà pubblica e proprietà privata.

Nuove parole percorrono il mondo: software libero, no copyright, accesso libero all’acqua, al cibo, ai farmaci, a Internet, e queste diverse forme di accesso assumono la veste dei diritti fondamentali. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione che riconosce l’accesso all’acqua come diritto fondamentale di ogni persona, così come ha sottolineato il diritto di ognuno ad un “adequate food”. Proprio intorno a questi beni il conflitto si fa sempre più incandescente. I segni sono continui. In molte aree del mondo sono in corso vere e proprie “guerre per l’acqua” ; le previsioni per il futuro parlano di un rischio concreto di sete per le persone e di difficoltà per una serie di produzioni, in primo luogo quelle agricole; in Italia la questione è divenuta ineludibile dopo che, nel 2011, ventisette milioni di persone hanno detto sì in un referendum contro la privatizzazione della gestione dell’acqua, che veniva così collocata nella dimensione dei beni comuni.


Diversi paesi, inoltre, hanno già riconosciuto l’accesso a Internet come diritto fondamentale della persona con una varietà di strumenti - costituzioni (Estonia, Grecia, Ecuador); decisioni di organi costituzionali (Conseil Constitutionnel francese, Corte suprema del Guatemala), legislazione ordinaria (Finlandia, Peru).

Inoltre, il piano Obama sulle comunicazioni contiene una significativa reinterpretazione del servizio universale; l’Unione europea e il Consiglio d’Europa si sono già espressi a favore del diritto di accesso; proprio di questi temi si discute intensamente in rete, e vicende come quella delle “primavere arabe”, con l’uso intenso della rete e le mosse repressive e censorie contro chi ne è protagonista, inducono addirittura a chiedere che l’utilizzazione libera di Facebook venga riconosciuta come un diritto fondamentale della persona. In documenti ufficiali, come il Rapporto presentato dal relatore speciale Frank LaRue al Comitato per i diritti umani dell’Onu, nel maggio 2011, viene esplicitamente ribadito il carattere di diritto fondamentale proprio dell’accesso a Internet . Peraltro, qualificare l’accesso a Internet come diritto fondamentale è un riflesso della funzione assegnata a tale diritto come condizione necessaria per l’effettività di altri diritti fondamentali – in particolare per il diritto alla libera costruzione della personalità e per la libertà di espressione. E la previsione di una espressa garanzia costituzionale, nella forma appunto del diritto fondamentale, potrebbe essere introdotta nel sistema italiano attraverso una modifica dell’articolo 21 della Costituzione, nella forma seguente: “Tutti hanno eguale diritto di accedere alla rete Internet, in condizioni di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale” . Non è un caso che Tim Berners Lee, respingendo le critiche di un altro dei creatori del Web, Vinton Cerf, abbia accostato l’accesso a Internet all’accesso all’acqua, mettendo in evidenza proprio il rapporto tra persone e beni, con i relativi diritti come strumenti che consentono ad ogni interessato di poter concretamente disporre dei beni essenziali per la sua esistenza.

Si è venuta così generalizzando una attenzione per l’accesso che, da situazione strumentale in casi determinati (accesso ai documenti amministrativi, ai dati personali), si è progressivamente reso autonomo, individuando una modalità dell’agire, da riconoscere come un diritto necessario per definire la posizione della persona nel contesto in cui vive. L’accesso, inteso come diritto fondamentale della persona, si configura come tramite necessario tra diritti e beni, sottratto all’ipoteca proprietaria. Non è un caso che questa dinamica sia accompagnata da altre mosse istituzionali, tutte volte a liberare da vincoli la conoscenza e la sua circolazione, com’è accaduto con la legge islandese che ha fatto di Internet un vero spazio libero, il luogo di una libertà totale, dove è legittimo rendere pubblici anche documenti coperti dal segreto.

La tendenza è chiara. L’individuazione sempre più netta di una serie di situazioni come diritti di cittadinanza, anzi come diritti inerenti alla costituzionalizzazione della persona, implica la messa a punto di una strumentazione istituzionale in grado di identificare i beni direttamente necessari per la loro soddisfazione. Essi sono, anzitutto, proprio quelli essenziali per la sopravvivenza (l’acqua, il cibo) e per garantire eguaglianza e libero sviluppo della personalità (la conoscenza). Per questa loro attitudine vengono sempre più concordemente considerati “beni comuni”, per indicare in primo luogo il loro raccordo con la persona e i suoi diritti. Sì che, quando si parla dell’accesso a questi beni come di un diritto fondamentale della persona, si fa una duplice operazione: si affida l’effettiva costruzione della persona “costituzionalizzata” a logiche diverse da quella proprietaria, dunque fuori da una dimensione puramente mercantile; si configura l’accesso non come una situazione puramente formale, come una chiave che apre una porta che fa entrare solo in una stanza vuota, ma come lo strumento che rende immediatamente utilizzabile il bene da parte degli interessati, senza ulteriori mediazioni.

Ma una riflessione su Internet, attraverso il progressivo e generalizzato riconoscimento del diritto fondamentale all’accesso, mostra come attraverso l’estensione di questo diritto la rete si configuri come uno spazio comune. Una volta di più, dunque, è il riconoscimento di un diritto fondamentale a produrre un common, che in questo caso, come già si è detto per la cittadinanza, assume un vero carattere globale.


3. Questi esempi, tra i moltissimi che potrebbero essere richiamati, ci indicano elementi di continuità e discontinuità rispetto all’analisi di Tocqueville. Riferita com’era alla terra, essa scontava il fatto della scarsità, dal quale consegue che la terra non ammette usi “rivali”, utilizzazioni analoghe e contemporanee da parte di una molteplicità di soggetti. E la scarsità permane per beni vitali come l’acqua.

Diversa, evidentemente, è la situazione di altri beni, come la conoscenza che, in rete, non ha il carattere naturale della scarsità, è quindi suscettibile di usi non rivali, configurandosi propriamente come un common.

Se rivolgiamo l’attenzione alle diverse categorie di beni in proprietà, e le consideriamo in chiave storica e non ideologica, è forse possibile avviare una analisi più adeguata delle realtà che abbiamo di fronte. Sappiamo tutti che pure i diversi trionfi della proprietà privata nella modernità occidentale individuale non hanno lasciato dietro di sé solo «reliquie» degli altri regimi , dal momento che non sono mai state eliminate del tutto le aree nelle quali è possibile ritrovare gestioni pubbliche o collettive di beni. E pure l’imposizione di un regime di proprietà di Stato o comunitario non ha potuto del tutto cancellare l’attribuzione esclusiva di taluni beni ai singoli, fossero pure soltanto quelli legati alla vita quotidiana. Ma è appunto questa alternante logica binaria ad essere ormai inadeguata, intersecata com’è sempre più intensamente dall’attribuzione di una molteplicità di beni alla diversa categoria della proprietà comune. Che, tuttavia, non deve essere considerata con lo sguardo nostalgico di chi vede in questo fenomeno il semplice ritorno ai tempi che precedettero, in Inghilterra, le “enclosures” delle terre comuni e, altrove, il predominio della proprietà solitaria. Non è tanto il ritorno a “un altro modo di possedere” , ma la necessaria costruzione dell’”opposto della proprietà”.

Questo è un punto da considerare con attenzione, non per liberarsi del passato, ma perché talune ricostruzioni in materia di beni comuni portano con sé, espliciti o impliciti, chiari riferimenti alla premodernità, di cui talora si propone una rivalutazione. “Nel nuovo medioevo i tempi sembrano maturi per rivolte ed insurrezioni” . Si coglie qui una consonanza con il “neomedievalismo istituzionale”, al quale si è riferito insistentemente, e con maggiore determinazione di altri, Manuel Castells , partendo dalla premessa che “la rete, per definizione, ha dei nodi, ma non ha un centro” , con effetti di policentrismo, di dispersione “dei poteri sovrani fra attori diversi tra loro non gerarchizzati e che non insistono sul medesimo territorio” . La genealogia di questa vicenda ci porta a constatare che la categoria del “Nuovo Medioevo” è stata coniata negli anni della guerra fredda e ha conosciuto una crescente fortuna negli anni recenti, soprattutto in relazione al processo di costruzione dell’Unione europea . Ora, senza poter qui esaminare in dettaglio una questione così complessa e culturalmente sfaccettata, si deve comunque osservare che essa ha costituito il riferimento forte per una ricostruzione delle dinamiche della globalizzazione in termini di pluralità di “costituzioni civili” , con due possibili indicazioni per quel che riguarda i beni comuni, solo nelle apparenze contraddittorie. Se, infatti, il neomedievalismo induce a mettere l’accento piuttosto sull’esistenza di una pluralità di centri, irriducibili a logiche “comuni” e ciascuno governato da portatori di interessi diversi, il rischio dell’impossibilità di una fondazione unitaria del “comune” diviene evidente. Se, invece, la molteplicità dei contesti all’interno dei quali si collocano i diversi beni permette di cogliere la specificità di ciascuno, questa analisi realistica consente di sprigionare le potenzialità di cui ciascun bene è portatore. In modo efficace si è detto che un uso estremamente lato dell’espressione beni comuni “può comprometterne l’efficacia espressiva e banalizzarne il senso”, sì che “è indispensabile cercare di cogliere i caratteri comuni che attraversano gli usi eterogenei del termine per poi capire in che misura intorno alla definizione beni comuni sia possibile costruire una categoria unitaria di risorse” . Un lavoro di analisi, dunque, e di ricomposizione, che porta anche a esaminare in forme differenziate il rapporto tra accesso e gestione, dunque lo stesso significato della partecipazione. Se, ad esempio, si considera la conoscenza in Rete, se si riflette sui “digital commons” come uno dei temi centrali nella discussione, ci si avvede subito della loro specificità. Luciano Gallino ne ha giustamente parlato come di un bene pubblico globale . Ma proprio questa sua globalità rende problematico, o improponibile, uno schema istituzionale di gestione che faccia capo ad una comunità di utenti, cosa necessaria e possibile in altri casi. Come si potrebbe estrarre questa comunità dai miliardi di soggetti che costituiscono il popolo di Internet? Siamo di fronte ad uno di quei beni che, nel linguaggio di Elinor Ostrom, possono essere definiti “not community based”. Di nuovo una sfida alle categorie abituali, vecchie o nuove che siano. La tutela della conoscenza in Rete non passa attraverso l’individuazione di un gestore, ma attraverso la definizione dalle condizioni d’uso del bene, che deve essere direttamente accessibile da tutti gli interessati, sia pure con i temperamenti resi necessari dalle diverse modalità con cui la conoscenza viene prodotta. Qui, dunque, non opera il modello partecipativo e, al tempo stesso, la possibilità di fruire del bene non esige politiche redistributive di risorse perché le persone possano usarlo. E’ il modo stesso in cui il bene viene “costruito” a renderlo accessibile a tutti gli interessati.

Sono dunque le caratteristiche di ciascun bene, non una sua “natura”, a dover essere prese in considerazione, la loro attitudine a soddisfare bisogni collettivi e a rendere possibile l’attuazione di diritti fondamentali. I beni comuni sono “a titolarità diffusa”, appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive. Devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà. Incorporano la dimensione del futuro, e quindi devono essere governati anche nell’interesse delle generazioni che verranno. In questo senso sono davvero “patrimonio dell’umanità” e ciascuno deve essere messo nella condizione di difenderli, anche agendo in giudizio a tutela di un bene lontano dal luogo in cui vive.

E’ aperta una essenziale partita sulla distribuzione del potere. Un grande studioso, Karl Wittfogel, ha descritto il dispotismo orientale anche attraverso la costruzione di una “società idraulica” , che consentiva un controllo autoritario dell’economia e delle persone. Poteri pubblici e privati si contendono ancora oggi il governo di una risorsa scarsa e preziosa come l’acqua e, con la stessa determinazione, di una risorsa abbondante e altrettanto preziosa come la conoscenza. Di fronte ai nuovi dispotismi si leva la logica non proprietaria dei beni comuni, dunque ancora una volta “l’opposto della proprietà”. In questa riflessione altre memorie storiche possono soccorrerci, evocando esperienze come quella di Roma, dove la gestione dell’acqua con la costruzione delle infrastrutture necessarie - e le vestigia degli acquedotti ovunque ci tramandano quello spirito - era concepita come strumento per mantenere la coesione sociale, tanto che fino all’età imperiale era proibito ai privati di avere l’acqua nelle loro abitazioni.

Molte sono le divaricazioni da considerare nella loro storicità, sfuggendo così alle trappole ideologiche di cui è disseminata la riflessione sui beni comuni. Tra utilizzazione del bene e produzione di profitto. Tra disponibilità di un bene e sua “recinzione”, che impedisca utilizzazioni da parte di altri. Tra diritti di proprietà e creatività intellettuale. Tra beni materiali e beni comuni virtuali. Tra valore economico e riduzione a merce. Tra sguardo locale e proiezione globale. Un punto chiave della discussione è rappresentato dalla conoscenza, bene comune “globale” , per il quale si continua a ripetere che non può essere oggetto di “chiusure” proprietarie, ripetendo nel tempo nostra la vicenda che, tra Seicento e Settecento, in Inghilterra portò a recintare le terre coltivabili, sottraendole al godimento comune e affidandole a singoli proprietari. Per giustificare quella vicenda lontana si è usato l’argomento della accresciuta produttività della terra. Ma oggi il nuovo, sterminato territorio comune, rappresentato dalla conoscenza raggiungibile attraverso Internet, non può divenire l’oggetto di uno smisurato desiderio che vuole trasformarlo da risorsa illimitata in risorsa scarsa, con chiusure progressive, consentendo l’accesso solo a chi è disposto ed è in condizione di pagare. La conoscenza da bene comune a merce globale?

Così i beni comuni ci parlano dell’irriducibilità del mondo alla logica del mercato, indicano un limite, illuminano un aspetto nuovo della sostenibilità: che non è solo quella imposta dai rischi del consumo scriteriato dei beni naturali (aria, acqua, ambiente), ma pure quella legata alla necessità di contrastare la sottrazione alle persone delle opportunità offerte dall’innovazione scientifica e tecnologica. Si avvererebbe altrimenti la profezia secondo la quale “la tecnologia apre le porte, il capitale le chiude”. E, se tutto deve rispondere esclusivamente alla razionalità economica, l’effetto ben può essere quello di “un’erosione delle basi morali della società”, come ha scritto Carlo Donolo.

In questo orizzonte più largo compaiono parole scomparse o neglette. Il bene comune, di cui s’erano perdute le tracce nella furia dei particolarismi e nell’estrema individualizzazione degli interessi, s’incarna nella pluralità dei beni comuni. Poiché questi beni si sottraggono alla logica dell’uso esclusivo e, al contrario, rendono evidente che la loro caratteristica è quella della condivisione, si manifesta con nuova forza il legame sociale, la possibilità di iniziative collettive di cui Internet fornisce continue testimonianze. Il futuro, cancellato dallo sguardo corto del breve periodo, ci è imposto dalla necessità di garantire ai beni comuni la permanenza nel tempo. Ritorna, in forme che lo rendono ineludibile, il tema dell’eguaglianza, perché i beni comuni non tollerano le discriminazioni nell’accesso se non a prezzo di una drammatica caduta in divisioni che disegnano davvero una società castale, dove ritorna la cittadinanza censitaria, visto che beni fondamentali per la vita, come la stessa salute, stanno divenendo, o rimangono, più o meno accessibili a seconda delle disponibilità finanziarie di ciascuno. Intorno ai beni comuni si propone così la questione della democrazia e della dotazione di diritti d’ogni persona.

Proprio nella dimensione globale queste considerazioni assumono particolare rilevanza. Infatti, la logica privatistica, finora sostanzialmente dominante in questa dimensione, ha prodotto unj duplice effetto: la “commodification of sovereignity” e l’assenza di una qualsiasi idea di “global good”. La possibilità di affidarsi ad una logica diversa, allora, è legata anche alla consapevolezza che dev’essere garantita una “protection of planetary commons” , appunto di quei beni comuni ormai irriducibili alla misura del mercato e che sempre più spesso non possono essere rinchiusi nei confini nazionali.


4. La scelta, obbligata, di questo diverso punto di partenza ovviamente non porta con sé una sorta di reductio ad unum dell’intero mondo dei beni. Impone, però, una loro nuova classificazione, una tassonomia più ricca di quella imposta dalla logica pubblico/privato, che al più tollerava distinzioni all’interno di ciascuna di queste categorie. Se diventa più marcata la rilevanza della finalità alla quale deve essere riferita ciascuna categoria di beni, questo tipo di revisione impone una rinnovata attenzione per i soggetti in relazione ai quali vengono individuate le varie finalità. Non basta, in sostanza, riferirsi alla qualificazione formale del soggetto al quale viene attribuita la titolarità del bene. Fin dagli anni Trenta, grazie alla svolta impressa agli studi sulla proprietà dalla ricerca di Adolf Berle e Gardiner Means , è stata messa in evidenza la scissione tra proprietà e controllo nelle società per azioni, con un tragitto che va dal controllo di minoranza (sempre più esiguo percentualmente via via che crescono la dimensioni societarie e la diffusione delle azioni nel pubblico, ma comunque ancorato al dato proprietario) al passaggio al potere dei manager (che, tuttavia, si è progressivamente cercato di integrare nel capitale con l’attribuzione di partecipazioni e stock options). Analizzata in chiave di effettiva attribuzione del potere, la proprietà privata si scompone in una proprietà formale e una sostanziale: chi effettivamente gestisce il bene può essere diverso da chi ha il titolo formale di proprietario. Questa vicenda è stata colta dallo sguardo realistico dei giuristi. che non soltanto si sono liberati da incrostazioni dogmatiche, ma soprattutto hanno prospettato in modo diverso il significato politico e strategico del modello proprietario. Si è così cominciato a parlare non esclusivamente di una proprietà, ma di più proprietà , con un modello plurale che, tuttavia, non può essere analizzato semplicisticamente come se si trattasse di un ritorno al pluralismo dei regimi proprietari anteriore alla riunificazione operata dai codici e dalle dottrine scientifiche dell’Ottocento.

Sul versante pubblico la vicenda è stata anche più turbolenta. La definizione dei regimi politici in termini proprietari non appartiene ai tempi recenti, e neppure alla sola modernità, come insegnano i caratteri dello Stato patrimoniale e il rapporto diretto tra il sovrano e il territorio, che in Gran Bretagna, sia pure solo formalmente, è rimasto immutato fino alle leggi del 1925. Ma la proprietà statale dei mezzi di produzione ha connotato gli Stati socialisti del Novecento ed esperienze comunitarie all’interno di singoli Stati, come i kibbutz israeliani, hanno circoscritto radicalmente il perimetro della proprietà personale, esaltando quello della proprietà indivisa. Queste grandi e tragiche esperienze debbono essere ricordate, ma non possono certo essere esaminate in dettaglio. Un dato, però, merita di essere estratto da un magma ancora non analizzato compiutamente, e riguarda la categoria della proprietà “personale”, intesa appunto come quell’insieme minimo di beni indispensabili per la soddisfazione di esigenze anch’esse minime. Un doppio, e inquietante, riduzionismo, che tuttavia mette in evidenza un legame tra persona e beni che non può mai essere interamente reciso e che, invece, può essere compiutamente recuperato, al di là di qualsiasi misura minima, quando la persona viene ricostruita nella sua pienezza costituzionale. Questa implica, infatti, l’integrale recupero di quei diritti fondamentali che, a loro volta, individuano i beni funzionalmente legati a quei diritti e alla loro soddisfazione, senza che sia necessario passare attraverso il modello proprietario privatistico. Dunque, in primo luogo, i beni comuni.

Ricostruendo, sia pure sommariamente, una intricata vicenda storica, si può ben dire che i beni comuni conquistano progressivamente una ribalta che li fa divenire ineludibile riferimento E tuttavia, come già si è ricordato, questa rinnovata rilevanza rischia d’essere pagata con un allungarsi del loro catalogo che può privarli di forza analitica e ricostruttiva (se tutto è comune, non ha senso una identificazione specifica di beni comuni), e con l’assunzione di venature quasi fondamentaliste, che sconfinano nell’ideologia. Ai giuristi in primo luogo, dunque, spetta il compito di definire le condizioni d’uso di quell’espressione, soprattutto quando ad essa si attribuisce valore normativo.

Peraltro, l’accento posto sui beni comuni è più simile a un cambio di paradigma che ad una riscoperta di qualcosa che mai ha cessato d’essere presente nei sistemi giuridici – una proprietà collettiva ora contemplata come reliquia, ora intesa come potenzialità inespressa. Se si vuol ritrovare una qualche genealogia storica, politica e istituzionale, lo sguardo deve essere piuttosto rivolto ai molti, e non fortunati, tentativi soprattutto degli anni Settanta di costruire un retroterra non proprietario attraverso nazionalizzazioni “rovesciate” e piani per una graduale trasmissione della proprietà dell’impresa ai dipendenti . In questa chiave, essi potrebbero venir considerati come il simbolo che meglio rivela la possibilità di chiudere una parentesi, quella della moderna proprietà privata, che una operazione politica ha costruito come un archetipo al quale non si potrebbe sfuggire , tornato ad essere il cuore di quella nuova versione del diritto “naturale” che fonda la religione del mercato degli ultimi tempi. Ma, più concretamente e più rigorosamente, si deve guardare ai beni comuni in primo luogo come elemento inseparabile da una persona affrancata dalla dipendenza esclusiva dalla proprietà, in una prospettiva che, seguendo ancora le parole dell’articolo 3 della Costituzione, congiunge “il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Il punto culturalmente e politicamente più significativo di questa rinnovata fondazione non proprietaria consiste nel ridare centralità al legame sociale, mettendo in discussione il modello individualistico senza però negare le libertà della persona che, anzi, conquistano più efficaci condizioni di espansione e inveramento per il collegamento con i diritti fondamentali. Ma la luce dei beni comuni rischia di abbagliare, lasciando intendere che quasi ci si può disinteressare di proprietà pubblica e proprietà privata. Contemplando solo il loro orizzonte, infatti, spesso si trascura poi l’effetto di sistema che essi producono. Da una parte, anche la proprietà pubblica deve essere liberata dai tradizionali schemi astratti che ancora la imprigionano, demanio e patrimonio, a vantaggio di una classificazione che muova dalle funzioni proprie dello Stato e delle sue articolazioni fino a contemplare beni di cui deve essere garantita la miglior utilizzazione economica possibile . La proprietà privata, dal canto suo, non soltanto è stata relativizzata rispetto agli schemi escludenti ogni interesse diverso da quello del proprietario. Deve pure essere intesa e regolata in funzione delle attitudini dei beni che la costituiscono, anch’essi riportati, sia pure con modalità peculiari, al fatto che anch’essa “vive in società”, con una rilevanza sempre più marcata di sue componenti “pubbliche” e “comuni”, messe in evidenza da una molteplicità di strumenti giuridici, dai piani regolatori alle discipline sull’ambiente.

La proiezione della persona nel mondo, infatti, non passa soltanto attraverso i beni comuni, né la rilevanza dei diritti fondamentali, per quanto riguarda il rapporto con i beni, si esaurisce in quella sola dimensione. La specialità della relazione istituita dai beni comuni, come già è stato sottolineato, risiede nell’attitudine di questi beni, storicamente accertata attraverso il raccordo con i diritti fondamentali, a soddisfare bisogni della persona costituzionalizzata, dunque non di un soggetto astratto, costruito nell’indifferenza per la materialità del vivere. Si va così oltre una sorta di contemplazione dell’orizzonte dei diritti fondamentali, lontano e talvolta irraggiungibile. L’intreccio tra beni comuni e diritti fondamentali produce un concreto arricchimento della sfera dei poteri personali, che a loro volta realizzano precondizioni necessarie per l’effettiva partecipazione al processo democratico. Si potrebbe dire che, per tale via, si costruisce una rinnovata opportunità di ricongiungimento tra l’uomo e il cittadino. Si individua uno spazio appunto “comune”, al di là di individuo e Stato. “È questa dimensione metastatuale e metaindividuale l’elemento caratteristico di uno spazio comune o collettivo la cui importanza e pervasività appaiono crescenti ed evidenti” ..

Ma i beni comuni si distendono pure in una dimensione più larga dove, accanto al riferimento ai diritti fondamentali, compare quello riguardante un governo del cambiamento inteso come salvaguardia dell’ecosistema e della stessa sopravvivenza dell’umanità. Anche qui, evidentemente, compaiono diritti, come quello alla tutela dell’ambiente, e soggetti ai quali sono riferibili – l’umanità, le generazioni future.

“I processi ipermoderni e globali sono intrisi di beni virtuali, cognitivi e normativi” . Non tutti necessariamente comuni, com’è ovvio. E tuttavia proprio in questa dimensione il “comune” è riferimento ineludibile per identificare le risorse necessarie per governare il cambiamento globale, il “global change” - un processo in continuo divenire, non un assetto consolidato. Queste risorse, però, possono presentarsi esse stesse come i beni da salvaguardare: le diverse forme della conoscenza, prodotte non soltanto dall’innovazione tecnologica, ma precipitato storico di culture, tradizioni, esperienze, “saper fare” sedimentato nei secoli; le risorse naturali; i beni culturali, ambientali, archeologici, paesaggistici. Per quest’insieme di beni si pongono, insieme, problemi di tutela, per sottrarli a nuove “chiusure”, a logiche che costruiscono le condizioni istituzionali per la loro entrata nel circuito mercantile; e problemi di “messa in valore”, per evitare una tragedia degli “anticommons”, della sottoutilizzazione delle loro potenzialità.


Si possono così definire ulteriormente le caratteristiche dei beni comuni, che sono affidati ad una azione collettiva variamente articolata nelle forme della gestione, della partecipazione, dell’accesso; alla reciproca fiducia e alla comunicazione efficace tra gli interessati, anche per abbattere i costi di transazione; all’esistenza di regole adattabili alla diversità delle situazioni e delle loro dinamiche.


5. Molte, dunque, sono le dimensioni dei beni comuni. Tutte concorrono a segnare le modalità dell’esistenza. Questo loro intimo rapporto con la vita di ciascuno, tuttavia, non li trasforma in una componente ulteriore della “società degli individui”, chiusa e segmentata. Come incarnano l’opposto della proprietà, così i beni comuni delineano l’opposto dell’individualismo – una società nella quale sono continui gli scambi e le interazioni tra individuale e sociale, dove appunto la ricostruzione del legame sociale diviene tema centrale. Al tempo stesso, però, la parola “comune” può indurre un equivoco, che consiste nel ritenere che la dimensione loro propria sia quella comunitaria. Qui continua a giocare un ruolo la storica suggestione del rapporto tra la piccola comunità e quei beni che consentivano a tutti gli appartenenti ad un gruppo di esercitare liberamente il diritto di pascolo, di legnatico, di attingere l’acqua. Nella fase che stiamo vivendo, invece, un tratto caratteristico dei beni comuni consiste nel movimento ascensionale che li ha portati dalla periferia al centro del sistema, rendendo quasi sempre improponibili le suggestioni tratte dai modelli del passato. La loro portata innovativa, muovendo dalla persona e dai suoi diritti, si distende oltre questo confine, proietta la persona stessa oltre il luogo in cui vive per le interdipendenze che condizionano l’accesso ai beni della vita – le modalità della produzione, le logiche del commercio internazionale, la salvaguardia di ambienti e tradizioni. E’ la logica del “comune” , non della “comunità”, a fondare lo spazio dei beni comuni, sempre più globali: a meno che, con quest’ultimo termine, non ci si voglia riferire alla “comunità umana”, dunque all’opposto di una chiusura in frontiere nelle apparenze protettive, ma nella sostanza pericolosamente legate ad una appartenenza che può produrre conflitti con chiunque abbia una appartenenza diversa e interessi concorrenti sul medesimo bene. Si può ricordare, ad esempio, che sottrarre l’acqua alla dipendenza da qualsiasi sovranità, pubblica e privata che sia, diviene la condizione non solo per una più equa distribuzione delle risorse, ma per evitare conflitti laceranti, quelle “guerra dell’acqua” alle quali già si è accennato e che rischiano d’essere parte del nostro futuro. Con una qualche forzatura enfatica, si può dire che, considerati da questo punto di vista, i beni comuni possono contribuire all’inafferrabile diritto alla pace? Più modestamente, si può comunque osservare che le dinamiche di questi beni, come presidio di diritti fondamentali e come risorse da mettere in comune, vanno nella direzione di una costruzione né autoritaria, né strumentale di valori condivisi.

La dialettica tra il criterio unificante del “comune” e la pluralità dei beni comuni, peraltro, deve essere attentamente considerata per evitare che si determinino pericolose forme di frammentazione e di contrapposizione tra le comunità di riferimento. Nuove “chiusure”, infatti, possono ben essere determinate proprio dal fatto che una determinata comunità, quale che sia la sua ampiezza, rivendichi una appartenenza che escluda l’attenzione per il fatto che un determinato bene sia punto d’incidenza dell’interesse di comunità distinte.

La ricerca di radici profonde, lontane, e di una continuità persistente nel considerare comuni alcune categorie di beni può determinare poi un altro equivoco. La rilevanza e la tutela dei beni comuni deriverebbero da una loro natura, da un’essenza che li caratterizzerebbe al di là delle contingenze. Ma il loro affiorare impetuoso e pervasivo non può fare astrazione dalla storia e dai suoi movimenti. L’attenzione per l’ecosistema è figlia delle violazioni determinate dallo sviluppo industriale, così come l’invenzione culturale del paesaggio è all’origine della richiesta di una sua tutela che lo sottragga alla logica proprietaria. Il mutare degli assetti territoriali, lo sradicamento delle persone dai luoghi in cui vivevano, l’imposizione di brevetti nell’agricoltura e la sua dimensione industriale danno un senso nuovo al diritto al cibo. L’appropriazione del vivente e la conoscenza come bene comune non sono pensabili fuori dell’innovativo contesto scientifico e tecnologico. Si potrebbe continuare. Ma un “naturale” punto unificante non può essere ritrovato neppure in un generico riferimento alla persona e alle sue esigenze, poiché anche queste, al di là di un altrettanto generico riferimento alla sopravvivenza, sono strettamente legate alla loro costruzione culturale e istituzionale, al loro trasferimento dal mondo indeterminato dei bisogni a quello esigente dei diritti fondamentali. Legando il bene comune ad una loro essenza o natura, nelle apparenze si dà ad esso una più sicura fondazione, ma nella sostanza si introduce un vincolo che può rendere ardua la qualificazione come bene comune di ciò che è il frutto della cultura e della storia, non di una visione per molti versi metafisica.

Grazie al diverso sguardo imposto dai beni comuni, inoltre, davvero si può andare oltre il modello occidentale, al suo “individualismo proprietario”, relativizzandolo attraverso la riflessione storica e comparativa, che mette nitidamente in evidenza come esso debba essere considerato come una delle possibili varianti della relazione tra persona e mondo esterno. Qui si colgono pure gli intrecci complessi e pericolosi tra proprietà e sovranità, che possono condurre ad imprese distruttive di beni comuni. Torna sovente nelle discussioni il riferimento alla foresta amazzonica, e si sottolinea con forza come gli interventi speculativi mettano a rischio non solo un ecosistema locale, ma un elemento essenziale dell’ecosistema globale. Si chiede al Brasile di salvaguardare un bene che l’umanità considera “comune”, così entrando in conflitto con quella versione della sovranità nazionale che comprende il diritto di ogni Stato a disporre liberamente delle proprie risorse. Per sciogliere questa contraddizione, è indispensabile andare oltre proprietà e sovranità, approdando ad una nozione di solidarietà che metta in evidenza come il vantaggio comune della salvaguardia di un elemento costitutivo dell’ecosistema globale debba essere accompagnato da un contributo compensativo da parte di tutti i soggetti interessati. L’umanità esce così dalle nebbie di una soggettività indistinta ed assume il volto degli Stati che debbono concretamente contribuire a compensare il Brasile con modalità da stabilire. In questo caso, infatti, non è possibile procedere alla qualificazione di un bene come patrimonio dell’umanità – come è avvenuto per il fondo del mare, lo spazio extraatmosferico, l’Antartide – perché si devono fare i conti con una appartenenza nazionale già formalizzata, con la necessità di rimuovere un diritto contemplato da documenti internazionali.


6. I beni comuni tendono così a configurarsi come l’opposto della sovranità, non solo della proprietà. Finalizzati come sono al raggiungimento di obiettivi sociali e alla soddisfazione di diritti fondamentali creano una condizione istituzionale di indifferenza rispetto al soggetto che risulta esserne il titolare formale. Appartengono a tutti e a nessuno: tutti possono accedervi, nessuno può vantare diritti esclusivi. Divengono condivisi per sé stessi, e dunque devono essere gestiti in base ai principi di eguaglianza e solidarietà, rendendo effettive forme di partecipazione e controllo degli interessati e incorporando la dimensione del futuro, nella quale si riflette una solidarietà divenuta intergenerazionale, un obbligo verso le generazioni future. In questo senso tendono a costituire un vero “patrimonio dell’umanità”, la cui tutela è anch’essa affidata ad una legittimazione diffusa, al diritto di tutti di agire perché siano effettivamente conservati, protetti, garantiti. Attraverso questa molteplice attribuzione di poteri i beni comuni promuovono una cittadinanza attiva ed eguale.

Il caso dell’acqua, ormai parte di una agenda politica planetaria imposta dalla forza delle cose, assume particolare rilevanza per sé e per il modo in cui illumina altri beni comuni, rispetto ai quali si pone come una necessaria premessa. Il diritto all’acqua è una condizione di base rispetto ad altri essenziali diritti fondamentali, come il diritto alla salute, il diritto al cibo, dunque lo stesso diritto alla vita. Gli intrecci tra vita e beni comuni sono palesi. Li rivela il diritto alla salute, quando si concretizza nel diritto all’accesso ai farmaci, che sfida continuamente le logiche proprietarie affidate in primo luogo al diritto dei brevetti. Qui, come tutte le volte in cui si affronta il tema dei beni comuni, non siamo di fronte a processi lineari. Ogni passaggio è faticoso, problematico. E’ un gioco che si svolge su molti livelli, al quale partecipa una molteplicità di attori.

Persone e Stati, soggetti nazionali e internazionali, società farmaceutiche e organizzazioni di cittadini si confrontano continuamente, spesso in modo conflittuale. Ma la salute, malgrado il persistere di alcune radicate resistenze, si presenta come un diritto fondamentale riconosciuto in modo sempre più ampio e intenso, un punto di partenza ineludibile, un riferimento essenziale. Si manifesta in modo sempre più marcato una impostazione non proprietaria, soprattutto nei paesi dove il conflitto tra la tutela della vita e della salute e la logica del mercato è più evidente e drammatico. In questo conflitto continuo ci troviamo di fronte a molte possibili impostazioni, talora diverse, spesso complementari. Utilizzazioni nuove di strumenti come le licenze obbligatorie o di pratiche come le importazioni parallele. Ricorso intenso al potere politico. Emersione informale di coalizioni di Stati, testimoniata dalle strade scelte da paesi come il Brasile, il Sudafrica, la Thailandia, e sostenuta da interventi incisivi delle loro corti supreme.

Il diritto fondamentale alla salute incontra così la conoscenza, e il diritto dei brevetti si trasforma in un campo di battaglia. Paesi come il Brasile, il Sudafrica, l’India invocano il diritto di produrre farmaci a basso costo (e di esportarli a certe condizioni), indispensabili per curare milioni di malati di Aids o di malaria, anche violando i diritti di cui sono titolari le grandi multinazionali farmaceutiche. L’accesso alla conoscenza, in questa prospettiva, diviene una condizione necessaria per impedire che la salute sia governata esclusivamente da chi la considera una merce da comprare sul mercato, e non un diritto fondamentale della persona.

La questione capitale è rappresentata, dunque, da una possibile metamorfosi di un sapere tutto risolto nella logica proprietaria, com’è nella produzione farmaceutica. Il risultato di questo processo, che peraltro investe la conoscenza nel suo complesso, è la sua trasformazione, parziale o totale, in un bene comune. Non siamo, allora, di fronte ad una semplice associazione tra diritti fondamentali e beni comuni, bensì alla produzione di beni comuni attraverso i diritti fondamentali.


7. La questione dei beni comuni assume dimensioni diverse quando si affronta il diritto al cibo.

Questo diritto – nelle sue varie specificazioni come cibo sicuro, sano, adeguato – si presenta davvero come componente della cittadinanza globale. Lo dimostra il lungo cammino che comincia nel 1948 con la Dichiarazione universale dei diritto dell’uomo dell’Onu e arriva a documenti recenti come il decreto brasiliano sulle Politiche per la sicurezza alimentare (25 agosto 2010) e la nuova Costituzione del Kenya (27 agosto 2010), che sono manifestazione concrete di un movimento più generale, testimoniato tra l’altro dalle proposte di introdurre nella costituzione indiana una misura concreta di che cosa sia il diritto al cibo (una quantità mensile di riso). Si sta passando da una impostazione dall’alto verso il basso, che ha avuto la sua manifestazione più nota nella formula della “lotta alla fame nel mondo”, ad una di tipo orizzontale, dove sono gli Stati direttamente interessati a divenire i protagonisti dei processi, senza che, tuttavia, vengano meno responsabilità sociali condivise da una più larga platea di attori internazionali e nazionali. Si può ben dire che siamo di fronte ad una costituzionalizzazione “universale” di questo diritto, peraltro corrispondente a quel processo di costituzionalizzazione della persona che costituisce uno degli sviluppi più significativi dei diversi sistemi giuridici.

In questa prospettiva, la specificazione progressiva del significato e dell’ampiezza del diritto al cibo diviene particolarmente importante. All’inizio, nell’articolo 25 della Dichiarazione dell’Onu, esso veniva considerato come uno degli elementi costitutivi del più generale diritto ad uno standard di vita adeguato.

Poi, in particolare nell’articolo 11 del Protocollo internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, viene meglio qualificato come cibo “adeguato” e raggiunge un primo livello di autonomia nella versione minima che lo qualifica come “diritto fondamentale di ciascuno d’essere libero dalla fame”. Le discussioni e le successive evoluzioni normative daranno vita ad un diritto fondamentale della persona che riguarda l’esistenza in tutta la sua complessità, divenendo così non solo componente essenziale della cittadinanza, ma precondizione della stessa democrazia.

Le diverse tappe di questo processo possono essere così schematizzate:

-da una generica lotta alla fame nel mondo a uno specifico diritto di accesso al cibo;

-da una impostazione paternalistica alla diretta responsabilità di organismi pubblici;

-dalla sua collocazione nel solo quadro dei principi ad un concreto riconoscimento fondato su disposizioni puntuali;

-da diritto costruito intorno ai “worst-off”, ai più svantaggiati, a diritto che investe nel suo insieme la condizione umana.


La strategia per il riconoscimento di questo diritto, infatti, si è progressivamente dilatata, prende in considerazione il modo di produzione degli alimenti: affidato soltanto ad una economia “turbocharged”, supercapitalistica , oppure rispettoso dei diritti di tutti i produttori e consumatori, anche nella forma dello “slow food”, che vuole rendere effettiva anche la tutela della salute e dell’ambiente. La sicurezza alimentare si configura così anche come un limite alla libertà d’impresa, secondo l’indicazione esemplare contenuta nell’articolo 41 della Costituzione, dove si afferma che l’iniziativa economica privata “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. In tal modo il diritto al cibo apre una prospettiva più ampia per la tutela dei diritti fondamentali e include tra gli attori da tenere presenti anche le generazioni future.

L’accesso si presenta così come uno strumento necessario perché possa essere assicurato un cibo adeguato. Ma, a questo punto della discussione, anche il riferimento all’adeguatezza deve essere reinterpretato. Adeguatezza significa andare oltre l’impostazione minimalista, anche se essenziale, della semplice libertà dalla fame. Attraverso il cibo adeguato e sicuro non si nutre solo il corpo, ma la stessa dignità della persona. L’adeguatezza, allora, non può essere considerata solo un criterio quantitativo, ma qualitativo.

Jean Ziegler, nel suo rapporto per l’Onu sul diritto al cibo, ha sottolineato che le persone hanno diritto “a un cibo adeguato e sufficiente, corrispondente alle tradizioni culturali del popolo al quale la persona appartiene e che assicuri - dal punto di vista fisico e psichico, individuale e collettivo - una vita piena e dignitosa, libera dalla paura” . Se vogliamo davvero costruire un mondo multiculturale, questa indicazione assume particolare rilevanza. E così il diritto al cibo incontra la dignità della persona e il rispetto della diversità culturale (nominati, ad esempio, dagli articoli 1 e 22 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea); il principio di non discriminazione (articolo 21 della stessa Carta); il diritto al libero sviluppo della personalità (com’è variamente considerato dall’articolo 2 della Costituzione italiana e dal paragrafo 2 di quella tedesca); l’ampia definizione della salute elaborata dall’Organizzazione mondiale della salute come “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale, e non soltanto come assenza di malattia o infermità; l’integrità della persona (ancora la Carta europea, al suo articolo 3). Il diritto al cibo conferma così la sua attitudine ad essere ineludibile punto di convergenza di molteplici principi giuridici, dando ad essi particolare concretezza e contribuendo così alla fondazione di un nuovo ambiente politico-istituzionale.

Considerato proprio per questa sua attitudine ad essere riferimento di una serie di diritti fondamentali, il diritto al cibo si presenta anche come un forte strumento per contrastare ogni forma di riduzionismo, in particolare quello che vuole trasformare le persone in consumatori passivi, anzi in “consumati”, come ha ben messo in evidenza Benjamin Barber con la sua analisi del passaggio da cittadini a clienti .

L’attuazione integrale del diritto al cibo, seguendo il modo in cui si è venuto progressivamente precisando, è necessaria proprio per evitare questo destino e per difendere effettivamente l’integrità e l’autonomia d’ogni persona.

L’accesso al cibo si conferma così come parte integrante della cittadinanza, sì che il diritto al cibo deve essere anche considerato come un criterio per comprendere la condizione di una società e il modo in cui vengono distribuite e rispettate le responsabilità politiche, economiche e sociali. Questo vuol dire anche che il diritto al cibo, nelle sue varie specificazioni, inevitabilmente partecipa delle difficoltà di garantire i diritti delle persone nella dimensione globale. Un problema, questo, che deve essere considerato facendo sempre riferimento al modo in cui può essere realizzato il collegamento tra determinati beni e specifici diritti fondamentali, che tuttavia, come già si è sottolineato, non passa necessariamente attraverso procedure giuridiche formalizzate e non si basa necessariamente su norme vincolanti. Si manifestano sempre più spesso dinamiche complesse, che possono anche prendere le mosse da documenti internazionali, ma vedono poi come protagonisti soggetti sociali capaci di esercitare efficaci pressioni informali, che prima fanno emergere e poi garantiscono effettivamente beni pubblici globali.


8. Tra questi ha ormai assunto rilevanza particolare la conoscenza, nella versione legata al funzionamento della rete, alla realtà di Internet, nella quale non si manifesta soltanto una cancellazione di confini, ma la creazione del più vasto spazio pubblico che l’umanità abbia mai conosciuto. L’accesso a questo mondo, alla conoscenza che esso produce e contiene, diventa così un momento capitale per intendere la questione dei beni comuni, davvero proiettata sull’intero pianeta e sempre più espressiva del modo in cui il potere si crea e si redistribuisce nel mondo globale.

In questo spazio tutti e ciascuno acquistano la possibilità di prendere la parola, acquisire conoscenze, creare idee e non solo informazioni, esercitare il diritto di critica, discutere, partecipare alla vita pubblica, costruendo così una società diversa, nella quale ciascuno può rivendicare il suo diritto ad essere egualmente cittadino. Ma questo diviene più difficile, se non impossibile, se la conoscenza viene recintata, affidata alla pura logica di mercato, imprigionata da meccanismi di esclusione, che ne disconoscono la vera natura e così mortificano una ascesa che ha fatto della conoscenza in rete il più evidente tra i beni comuni. L’importanza del considerare l’accesso a Internet come un diritto fondamentale della persona viene continuamente confermata dal ruolo giocato dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione in un numero crescente di significative vicende politiche e sociali, com’è avvenuto con particolare evidenza nelle “primavere arabe” che, per il ruolo assunto dalle reti sociali, hanno addirittura fatto parlare di un “diritto a Facebook”. Il modo in cui si sta evolvendo la partecipazione popolare alla vita politica, con l’emersione progressiva di una vera cittadinanza globale, esige che Internet venga appunto considerato come un “common”, uno spazio comune, dove dev’essere respinta ogni forma di diseguaglianza digitale, controllo esterno, censura.

Proprio nella fase più recente, tuttavia, si è manifestata una contraddizione. Più la conoscenza si dilatava e diveniva accessibile, più si ricorreva a strumenti che, come il diritto d’autore, limitavano l’utilizzabilità di conoscenze prima liberamente disponibili. Riferendosi a quel che accade nell’industria cinematografica come a un esempio assai eloquente, Lawrence Lessig ha ricordato i nuovi limiti incontrati nel girare un film a causa delle rivendicazioni basate sul diritto d’autore, e quindi accompagnate da richieste di carattere economico, da parte del disegnatore d’un mobile, dell’architetto d’una facciata, dello scultore di un’opera, che comparivano in sequenze dei film. La conclusione veniva tratta dal consiglio dato da un regista di successo a un giovane autore: “sei completamente libero di girare il film che vuoi, purché tu lo faccia in una stanza vuota con i tuoi due amici” .

Esempi come questo mostrano come il dilatarsi dei riferimenti al diritto d’autore, per non dire il suo vero e proprio abuso, possano limitare le opportunità riguardanti anche l’uso di beni in precedenza comuni, nel senso almeno di una loro libera utilizzabilità. Ma il dilatarsi della dimensione dell’immateriale ha indotto una parallela dilatazione delle tecniche proprietarie, determinando così la “chiusura” di vecchi e nuovi beni . Diventa così evidente che non basta enfatizzare l’avvento dell’”era dell’accesso” come se la centralità di questo nuovo riferimento potesse liberarci dalle costrizioni imposte dalla proprietà. L’espansione della logica dell’accesso, fino alla sua configurazione come un diritto autonomo, riguarda sostanzialmente beni che non siano scarsi, che permettano usi non rivali e siano quindi utilizzabili senza la mediazione proprietaria. L’insinuarsi anche in questa dimensione della logica proprietaria, producendo una scarsità “artificiale”, trasforma beni comuni in merci accessibili solo attraverso le regole del mercato.

Ma la dissociazione tra proprietà e accesso deve essere considerata anche da un altro punto di vista. E’ ben noto che la disponibilità di brani musicali, film o libri, ottenuta grazie ad un accesso assicurato da particolari applicazioni, non attribuisce agli interessati la libera disponibilità di quegli oggetti. Essi hanno soltanto acquistato il diritto di accedere ad essi e di utilizzarli per un periodo determinato, comunque non eccedente la loro vita, rispettando le condizioni indicate nella licenza che mette a loro disposizione quei contenuti digitali. Queste dettagliatissime e imperiose condizioni escludono appunto una serie di poteri, primo tra tutti quello di trasmettere ad altri il materiale raccolto. Si consuma così un nuovo divorzio tra la disponibilità di un bene e la sua proprietà, che rimane nelle mani di altri.

I vantaggi di questo modo di acquisire beni immateriali sono stati variamente illustrati. Ma non si è adeguatamente riflettuto sul fatto che, in questo modo, si viene espropriati di una delle modalità grazie alle quali, storicamente, è stata possibile la costruzione dell’identità. La possibilità di considerare “miei” quegli oggetti, che ho pazientemente raccolto, non ha soltanto una rilevanza economica, da valutare considerando anche le modalità della loro acquisizione. A quel “mio” tengo anche perché, attraverso una molteplicità di oggetti, ho costruito la mia personalità, di cui essi possono essere testimonianza pubblica. Quegli oggetti, anzi, incorporano in qualche modo la mia identità. Volerli trasmettere ad altri ben può essere un modo per proiettarmi nel futuro, per garantirmi una sorta di sia pur minima immortalità.

Il collezionista dona i suoi quadri o i suoi libri a un museo o a una biblioteca a condizione che la collezione non venga smembrata, sia presentata in sale che portano il suo nome e, magari, nella prima di esse compaia il ritratto del protagonista di tanta munificenza. Se, per un verso, la conoscenza si fa più agevolmente “comune”, per un altro le logiche proprietarie continuano a prendersi le loro rivincite Si obietta che questi vincoli sono giustificati dalla necessità di proteggere il diritto d’autore, dal fatto che io acquisto piuttosto un servizio, dal prezzo assai più basso di quello che avrei pagato comprando un cd o un dvd o un libro. Ma, soprattutto, è l’intera società che si costituisce progressivamente intorno all’immateriale. Si annuncia la scomparsa dei giornali, del libro di carta. Le alternative scompaiono.

Non è una forzatura polemica l’invito a riflettere su una organizzazione sociale in cui la conoscenza si struttura attraverso una distribuzione di poteri che vede, da una parte, una sterminata platea di “fruitori” che rimane in una situazione precaria rispetto agli strumenti di cui si serve; e, dall’altra, soggetti che mantengono la proprietà della conoscenza e si riservano, com’è scritto nelle licenze, un potere sostanzialmente arbitrario di mutare a loro piacimento le condizioni di utilizzazione. Questa constatazione riguarda una realtà che non si può considerare come definitivamente consolidata, obbliga ad andare oltre le risposte unicamente legate ad una logica proprietaria che distorce il modo in cui personalità e identità possono essere liberamente costruite.


I parlamenti, i legislatori si trovano così di fronte a nuove sfide, che non si esauriscono nella necessità di trovare punti di equilibrio tra la logica escludente della proprietà e quella inclusiva dei beni comuni.

E’ la stessa categoria della cittadinanza ad essere investita. La vera novità democratica delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione non consiste nel dare ai cittadini l’ingannevole illusione di partecipare alle decisioni attraverso un continuo ricorso a referendum elettronici, come per molto tempo s’è detto e qualcuno continua ancora a ripetere. Essa risiede nel potere di ciascuno e di tutti di utilizzare la straordinaria “ricchezza delle reti” , l’enorme quantità di sapere divenuta disponibile grazie alla tecnologia, potendo così controllare direttamente il modo in cui il potere viene esercitato, elaborare proposte autonome, in definitiva sperimentare e definire forme nuove di organizzazione sociale.

In questo vasto mondo – dove diventano concrete modalità inedite di democrazia “diretta” che tuttavia non cancellano quella rappresentativa – i parlamenti hanno come compito primario proprio la salvaguardia di questo oceano di opportunità e, al tempo stesso, devono adottare essi stessi non solo nuove tecniche di comunicazione, ma soprattutto utilizzare Internet nelle sue multiformi configurazioni per sollecitare l’opinione dei cittadini, aprendo così la strada a procedure che diano la possibilità di loro interventi diretti nel procedimento legislativo, rivitalizzando anche l’iniziativa legislativa popolare. In tal modo, non si supera tanto la contrapposizione tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta, ma si individuano nuove modalità di integrazione.. Così, la democrazia parlamentare può essere rivitalizzata, guadagnare nuova e più forte legittimazione nel momento in cui assume anche la veste di interlocutore permanente della società intera.

In questa prospettiva, l’espressione “democrazia come processo” assume concretezza nello spazio pubblico disegnato da Internet.. Ma, in questo spazio, il pubblico inclina sempre più verso il “comune”, dove l’interazione sociale e la produzione del discorso pubblico possono avere come risultato la creazione di un vero “espace citoyen”, il luogo di un’altra cittadinanza. Proprio questo modo di concepire e utilizzare Internet è continuamente sfidato dalle logiche di mercato, che si fanno tanto più forti quanto più gli usi commerciali del Web prevalgono quantitativamente su quelli non commerciali. Questo rende squilibrata l’utilizzazione della rete da due punti di vista. Anzitutto, se la rete viene considerata e utilizzata come uno spazio invaso dalla spinta al consumo, una sorta di “World Wide Supermarket”, deve essere organizzato in modo da garantire sicurezza ai suoi frequentatori. Ma questo non implica soltanto assicurare certezza e affidabilità alle transazioni commerciali effettuate in rete. Esige che il Web si presenti come uno spazio pacificato, asettico, dove nulla deve turbare i comportamenti volti al consumo. Gli argomenti adottati per giustificare questo orientamento non si limitano a quello, più noto, della lotta alla pornografia. In effetti, si può individuare anche una tendenza che esclude ogni presenza di situazioni “sgradevoli” o di atteggiamenti di dissenso più o meno aggressivo: in definitiva, l’inaccettabilità di tutto ciò che si presenta, o viene presentato, come un allontanarsi da un modello di “normalità”. Si determina così una “censura di mercato” che intacca la natura di “common” della Rete. In secondo luogo, l’accesso mediato da forme di pagamento apre la via alla più insidiosa tra le diseguaglianze digitali, quella che istituisce un rapporto tra reddito e accesso alla conoscenza.

Tutto questo impone di tornare al tema dell’eguaglianza, al modo in cui esso compare nel mondo della Rete, che rende difficilmente proponibile una impostazione tutta fondata sull’eguaglianza delle opportunità piuttosto che su quella dei risultati. Un’eguaglianza che fa astrazione dalle condizione effettiva delle persone non solo rischia di riproporre l’equivoco del “patrimonio del proletario”, formula con la quale si alludeva all’astratta capacità di ciascuno di divenire proprietario di qualsiasi bene, e dell’ingannevole eguaglianza che esso prospetta. Soprattutto., contraddice proprio la specificità della conoscenza in rete, l’immediatezza della sua relazione con l’accesso, non a caso sempre più largamente riconosciuto come diritto fondamentale della persona. Seguendo la linea analitica e ricostruttiva prima proposta, proprio il riconoscimento di questo nuovo diritto fondamentale pone immediatamente il problema di quali siano i beni necessari per la sua concreta attuazione che, nel caso qui considerato, conduce alla costruzione della conoscenza come “bene pubblico globale” .

Non siamo di fronte ad una semplice affermazione di principio, ma alla premessa necessaria per riconsiderare una serie di strumenti e di istituti giuridici, a cominciare dal brevetto e dal diritto d’autore. Si tratta, in sintesi, di individuare un nuovo e più adeguato equilibrio tra gli interessi di autori e inventori, e dell’industria nel suo complesso, e gli interessi collettivi non solo all’accesso libero alla conoscenza, ma alla salvaguardia del vivente e della sapienza culturale accumulata dalle comunità. Peraltro, la pretesa di mantenere intatta la pervasività senza limiti dell’individualismo proprietario è ormai messa in discussione anche da studiosi che, partendo proprio da una considerazione nelle effettive modalità di funzionamento del mercato, sottolineano l’inefficienza delle tradizionali regole sulla produzione e l’appropriazione del sapere, giungendo fina a chiedere l’abbandono del sistema del diritto d’autore . Partendo da questo punto di vista, non si entra necessariamente nella dimensione di una economia non di mercato, di un dono che, proprio in rete, riproduce molte delle ambiguità che storicamente lo hanno accompagnato, e ne hanno incrinato la purezza. Se, ad esempio, uno scrittore o un gruppo musicale decidono di mettere in rete una loro opera e di autorizzare tutti a scaricarla liberamente, è possibile che ciò corrisponda ad un interesse ad una maggior diffusione di quell’opera e, quindi, dell’influenza sociale, culturale, politica che essa può esercitare. Ma è più probabile che quella scelta corrisponda ad una diversa logica di investimento sulle idee perché, raggiungendo un numero di persone incomparabilmente maggiore di quello che potrebbe fare i suoi acquisti in libreria o in un negozio di cd, il valore di “mercato” dell’autore abbia un’impennata, perché la retribuzione dello scrittore come conferenziere o il ricavato dei concerti di un gruppo musicale superano i profitti derivanti dal diritto d’autore. Prima di giungere a soluzioni così radicali, tuttavia, è possibile incontrare progettazioni istituzionali che affrontano in modo aperto l’accesso e la circolazione della conoscenza, tra le quali spicca la tecnica dei “creative commons”, che consente all’autore di fissare il grado di tutela della sua opera. Il “comune” rivela così una attitudine a soddisfare interessi che, nella dimensione tradizionale, vengono presentati come inevitabilmente conflittuali.

Ma l’accesso libero alla conoscenza comprende anche la possibilità di essere “esposti” alle opinioni più diverse, consentendo la loro comparazione e accrescendo così la diffusione e il rafforzarsi dello spirito critico. Questi sono tratti caratteristici della democrazia che, da una parte, esigono il rifiuto della censura e di posizioni monopolistiche o dominanti nel sistema della comunicazione e, dall’altra, impongono trasparenza e accesso diretto alle fonti. La conoscenza muta la sua qualità e cambia il sistema nel suo complesso. Il cambiamento del linguaggio lo conferma: si parla sempre di meno di società dell’informazione e sempre più di società della conoscenza, che consente di andare oltre il rumore di fondo prodotto da una valanga di informazioni, facendoci approdare al pluralismo informativo e all’indipendenza di giudizio. Vicende come quella di Wikileaks lo confermano, svelando notizie tradizionalmente coperte dal segreto, cominciando a mettere in discussione gli arcana imperii, e così consentendo forme più dirette e diffuse di controllo sul potere.

Libertà di conoscenza per tutti e democrazia coincidono sempre di più. E acquistano senso più profondo riferimenti tradizionali. A Luigi Einaudi e al suo “conoscere per deliberare”. A Louis Brandeis e al suo “la luce del sole è il miglior disinfettante”. La conoscenza viene potentemente confermata come fondamento del processo democratico di decisione e come precondizione per la partecipazione e il controllo. Le logiche oligarchiche sono sfidate e, come già si è accennato, la stessa idea di democrazia viene rimessa in discussione. Non servono le contrapposizioni secche, le logiche binarie: democrazia diretta contro democrazia rappresentativa, trasparenza contro controllo, mondo senza centro contro territorio giacobino. Nuovi intrecci sono davanti a noi, sintetizzati, ad esempio, dal titolo di un libro che parlava di “Orwell ad Atene” , sottolineando così non l’ambivalenza, non le due facce della tecnologia, bensì la compresenza di logiche che non si escludono a vicenda, e per le quali devono essere trovati modalità di convivenza e rinnovati punti di equilibrio.

La questione centrale, ad ogni modo, si rivela essere la connessione tra diritti civili e politici e l’accesso al bene “conoscenza”, che contribuisce in maniera determinante a garantirne l’attuazione e che, per questa sua attitudine, si configura come bene comune. Di nuovo, non si va alla ricerca di un’essenza, ma di una relazione. La sequenza è chiara. E’ la qualità dei diritti da garantire che porta alla qualificazione di un bene come “comune” e all’ulteriore, necessaria, attrazione nell’ambito dei diritti dell’accesso a tali beni. Nel necessario rinnovamento delle categorie concettuali, imposto appunto dalla “ragionevole follia” dei beni comuni, non v’è spazio per residui giusnaturalistici, che finiscono con l’attribuire alla proprietà comune una fondazione sostanzialmente analoga, sia pure a parti rovesciate, a quella di una proprietà privata di cui si teorizza appunto una essenza immodificabile e inscalfibile. Nel momento in cui si fa astrazione dai soggetti e dai bisogni ai quali i beni comuni sono collegati, si imbocca una strada pericolosamente vicina a quella che ha portato alla costruzione della natura come “soggetto morale”, con i conseguenti interrogativi intorno a chi sia legittimato a parlate in suo nome e alle tentazioni autoritarie di chi ritiene la sua tutela sottratta a qualsiasi procedura democratica. Problemi, questi, che si ripropongono in modo acuto in presenza dei beni qualificati come “patrimonio comune dell’umanità”: categoria disomogenea sia dal punto di vista dei beni considerati (dallo spazio extratmosferico al genoma umano, alla cucina francese e via seguitando), sia dei documenti che attribuiscono questa qualificazione (un trattato internazionale o una dichiarazione dell’Unesco). Si deve aggiungere, peraltro, che “umanità” è riferimento che va oltre la considerazione di determinati beni, adoperato com’è per legittimare forme di intervento in situazioni di emergenza o per individuare una categoria di crimini.

Se si vuole indicare un tratto comune, questo può essere ritrovato nella volontà di sottrarre i beni compresi tra i patrimoni dell’umanità alla logica della sovranità nazionale, al dominio del mercato, alle prepotenze individuali e, conseguentemente, di salvaguardarne i caratteri perché di essi possa variamente godere una pluralità, nella maggior parte dei casi indeterminata, di soggetti. I patrimoni dell’umanità contribuiscono così a diffondere e legittimare, con significativi tratti premonitori, la logica dei beni comuni, rafforzando così ancor di più la loro ragionevole follia e la sfida che essa porta a due categorie fondative della modernità – sovranità e proprietà. L’esito, tutt’altro che definitivo, di questo processo si manifesta in nuove forme di distribuzione dei poteri, incidendo direttamente sui caratteri dei sistemi democratici. Alcuni caratteri di questa vicenda possono essere sintetizzati nel modo seguente. Uno degli effetti principali della qualificazione di un bene come “comune” può consistere nel fatto che la sua accessibilità non è necessariamente subordinata alla disponibilità di risorse finanziarie perché esso non rientra nell’ambito del calcolo economico. Questo si inserisce nel quadro delle responsabilità e dei compiti specifici, e sempre più rilevanti, dei regolatori pubblici, che devono individuare quali beni possano essere accessibili attraverso gli ordinari meccanismi di mercato e quali, invece, debbano essere sottratti a questa logica. Il punto è essenziale perché riguarda le modalità complessive di costruzione della società, individuate attraverso la rilevanza assunta da diritti non considerati come titoli da scambiare sul mercato, ma come elementi costitutivi della persona e della sua cittadinanza. Considerati da questo punto di vista, i beni comuni affrancano i diritti di cittadinanza dalle politiche redistributive. Proprio su quest’ultima considerazione si appunta l’attenzione di chi estende al rapporto tra diritti fondamentali e beni comuni la critica contro la “retorica dei diritti”. Ma non solo le vicende di una indeterminata età dei diritti, bensì le dinamiche presenti nel tempo nostro, confermano come quella “retorica” sia stata e rimanga un potente strumento nelle mani di chi vuole acquisire più libertà individuale, legami sociali più forti, più intensa presenza democratica. Attraverso la connessione tra i diritti fondamentali e i beni comuni, infatti, si può sfuggire ad un’altra dicotomia astratta e ormai culturalmente sterile, quella tra diritti e doveri, al posto della quale troviamo il rapporto tra pienezza della vita individuale e responsabilità sociali condivise. La solidarietà ritrova la sua funzione di principio costitutivo della convivenza.

Questo cambiamento della cornice concettuale avviene all’insegna di una emersione della materialità del vivere non più cancellata dall’astrazione, dunque di una “scoperta” della persona concreta e della realtà dei suoi bisogni. Un altro mutamento concettuale: al posto del soggetto astratto della modernità occidentale compaiono la persona e il costituzionalismo dei bisogni.

Proiettata su scala globale, come ormai accade, la relazione tra diritti fondamentali e beni comuni si presenta come una decisiva opportunità per affrontare la questione essenziale di uno “human divide”, di una diseguaglianza radicale che incide sulla stessa umanità delle persone, mettendo in discussione la dignità e la vita stessa.

Sono dunque dilemmi sociali quelli continuamente proposti dai beni comuni che, prima ancora d’essere considerati come oggetti che sfidano le categorie giuridiche tramandate, si presentano essi stessi come oggetti sociali complessi. Questo duplice riferimento, alla società e alla complessità, consente di svolgere analisi che rivelano sfaccettature della realtà, che, a loro volta, mettono in guardia contro forzature unificazioni intorno ad un unico modello."